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LUCIANO CARAMEL

FABRIZIO D'AMICO

LICIO DAMIANI

GIORGIO DI GENOVA

AMEDEO GIACOMINI

MARIO DE MICHELI

ERNESTO UGO GRAMAZIO

JEAN PIERRE JOUVET

BRANE KOVIČ

CAMILLO SEMENZATO

VITTORIO SGARBI

EMILIO VEDOVA

MARCELLO VENTUROLI

ANDRE' VERDET

Da quando conosco Giorgio Celiberti ho scritto varie volte, su giornali e riviste, della sua opera di sculture, pittore, grafico, e ho fatto un po’ la sua storia artistica, così singolare e così ricca di affermazioni e di significati inconsueti, dalle sue prime esperienze giovanili, negli ultimi anni drammatici della seconda guerra mondiale, alla recente mostra antologica che gli è stata dedicata nel maestoso e suggestivo scenario di Villa Simes, a Piazzola sul Brenta.
La prassi impone, ad ogni nuova esposizione pubblica del lavoro di un artista famoso, di rifare i vecchi discorsi, con le sole aggiunte riguardanti la sua produzione « inedita », se esiste. Così dovrei ricucire ancora una volta, magari per sommi capi, il ritratto biografico di Giorgio Celiberti, amico carissimo, interlocutore colto e profondo, compagno di tante piccole ma indimenticabili scorribande nell’eterna « provincia » della nostra vita sentimentale. Dovrei ricordare al visitatore di questa rassegna almeno le tappe più importanti della sua prestigiosa carriera, dal debutto, all’età di diciotto anni, alla prima Biennale veneziana del dopoguerra, nel 1948, al successo ottenuto cinque anni dopo alla Galleria « Art Vivant » di Parigi, e poi, via via, a Londra, Vienna, Bruxelles, Amsterdam, New York, Toronto e in tutte le maggiori città italiane.
Dovrei scrivere dei suoi numerosi soggiorni all’estero, delle sue feconde ricerche, dei suoi incontri con tanti maestri dell’arte contemporanea, delle sue tormentose verifiche, delle sue « scoperte ». E dovrei anche citare i giudizi dei suoi critici più autorevoli, da Leonardo Borghese a Virgilio Guzzi, da Marco Valsecchi a Marcello Venturoli, a Raffaele Carrieri, Luigi Carluccio, Marziano Bernardi, George Fanel, Jean Chabanon, Brian O’Doert, Thomas Heghels, Herbert Simmons, Asthur Gefieder…, e altri giudizi ancora, di scrittori come Dino Buzzati, Leonardo Sinisgalli, Amedeo Giacomini, Alcide Paolini, Carlo Sgorlon.
Infine sarei tenuto a « spiegare » al lettore comune di questo foglio i requisiti formali e contenutistici dell’arte di Celiberti: una lezione espressiva e culturale di alto magistero, coerente con le istanze perpetue dell’avanguardia, dello sperimentalismo concreto, razionale, del simbolismo ideologico. E anche una lezione morale, che trascende le tradizionali e logore concezioni accademiche per assurgere a denuncia dei falsi miti della storia, dell’agiografia, del potere, della inesorabile violenza occulta che giorno dopo giorno ci costringe alla solitudine, al disamore, all’indifferenza di fronte a tutto ciò in cui avremmo voluto sperare.
Le coordinate di questo excursus ci porterebbero al Celiberti delle inquietanti immagini pittoriche ispirategli da una visita al carcere di Terezin, dove migliaia di bambini ebrei morirono vittime della barbarie nazista; poi al Celiberti del ciclo creativo delle « archeologie » al Celiberti degli uccelli feriti, dei cavalli morenti, dei fiori recisi, delle ansie, delle mortificazioni, delle oppressioni.
Mi sia consentito, invece, assumere il compito semplice del cronista, per dare testimonianza dell’uomo Celiberta anziché dell’artista Celiberti, anche perché, in fondo è il primo che mi ha affascinato.
C’incontriamo spesso, stiamo volentieri insieme e parliamo di tante cose, di tanti progetti che poi non realizziamo. Esigenza di un rapporto umano, di uno scambio di desideri, di speranze, di illusioni? Credo sia così, anche se non ce lo siamo mai confessato.
Giorgio viene sovente nella mia città e la sua presenza costituisce sempre, per me e per gli altri amici, un’occasione preziosa.
Ci piace girovagare nei paesi e nelle contrade di campagna, alla ricerca di vecchie locande, disperse un po’ dappertutto nel Veronese, dal retroterra del lago di Garda alle rive paludose del basso Tartaro, dai contrafforti del Baldo alla Val d’Alpone, ci sono stato in tempi diversi tempi con Giovanni Comisso e con Dino Buzzati, con Giuseppe Berto e con Mario Soldati, e con Diego Valeri, Pier Paolo Pasolini, Michele Prisco, Carlo Bernari, Leo Lionni, Mario Pomilio, Paolo Volponi, Arrigo Benedetti, Nantas Salvalaggio, Carlo Sgorlon, Alberto Bevilaqua; e con Luciano Minguzzi, Bruno Cassinari, Giovanni Omiccioli, Quinto Ghermandi, Miguel Berrocal, Marcello Mascherini, Augusto Murer, Walter Piacesi, Luchino Visconti e tanti altri: narratori, poeti, pittori, scultori, cineasti.
Ci ritorno, qui e là, a Caselle di Sommacampagna, a Lugagnano di Custoza, a Vaga di Lavagno, con Giorgio Celiberti, per il piacere di stare con lui, di ascoltarlo parlare su mille argomenti diversi, di esplorarne l’animo. Giorgio s’intrattiene con tutti, con una spontaneità e un’umiltà che disarmano qualsiasi diffidenza o ritrosia. Accarezza i bambini, brinda con operai, contadini, piazzisti di passaggio, pensionati, massaie e immancabilmente, per un nonnulla, un sorriso, un gesto riverente, un saluto affettuoso, s’intenerisce, si commuove con un candore e uno stupore quasi infantili, come se si trovasse, all’improvviso, dinnanzi a una realtà lieta e imprevedibile; una realtà « proibita » alla quale l’uomo della « civiltà » nucleare non è più abituato.
Ecco, di questo mi piace scrivere nella presente nota. Della grande umanità di Giorgio Celiberti, del suo straordinario fascino spirituale e intellettuale, della sua eccezionale facoltà di reinventare le vita quotidiana, magari per un’ora, o soltanto per un momento. Qualcosa che può riuscire soltanto agli artisti e ai poeti assolutamente liberi, autonomi, indipendenti. Nono sono molti e di solito non sono felici, perché la vita, dopo quell’ora, dopo quel momento di beatitudine e di purezza, ripropone implacabilmente l’inventario dei suoi terrori, delle sue miserie, delle sue sconfitte.
Giorgio conosce bene questa impietosa lezione e anche lui la subisce, ma io so che ormai, e dopo, fino a quando ci sarà possibile incontrarci e ancora discutere d’arte e di letterature, di musica e di teatro, di storia e di problemi sociali, e ancora andare alla ricerca del calore dell’uomo « primitivo », ebbene io riceverò dalla sua parola e dal suo esempio altre prove persuasive della possibilità di interpretare il nostro mandato esistenziale secondo le regole suggerite dall’intelligenza e dall’amore per il prossimo.
Un’utopia? Forse. Ma anche un’ipotesi che ci conforta e ci aiuta a vivere.

Jean Pierre Jouvet

(in, Celiberti, catalogo della mostra, Verona, Galleria d'Arte Ghelfi, 15-30 ottobre, 1981)

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